O que é ser Mestre? - part. II
Qualche giorno prima di partire per gli Stati Uniti, a luglio 2019, stavo parlando del viaggio con alcuni amici capoeristi e del fatto che non vedevo l'ora di andare a visitare l'academia di Mestre João Grande, a New York.
Ricevetti dei commenti piuttosto spiazzanti, del tipo: "Bhe, ma ormai è vecchio, cosa può avere ancora di interessante come capoerista?" o ancora "E poi non si capisce quello che dice, non sa nemmeno la lingua del paese in cui vive!". Inutile dire che rimasi sconcertata da tali parole.
Le prime dette da un capoerista alle prime armi, le seconde da uno un po' più navigato e che - ironia della sorte - nemmeno lui parla molto bene la lingua del paese in cui vive. Ora, tralasciano il secondo commento che non merita essere ulteriormente preso in analisi, vorrei fare una riflessione sul primo.
Che cosa, un capoerista della velha guarda, ha da dire alle giovani generazioni? Tutto.
João Oliveira dos Santos, classe 1933, è capoeira pura. E' stato alunno di Mestre Pastinha, introdotto alla capoeira da João Pequeno; è stato rappresentante e promotore della cultura afro-brasiliana al World Festival of Black Arts a Dakar nel 1966 e uno dei protagonisti dello show folklorico "Viva Bahia" che ha attraversato Europa e Asia negli anni '70. E' dunque un rappresentante vivo del processo di diffusione della capoeira e della cultura afro-brasiliana nel mondo.
E' memoria viva di un tempo in cui la capoeira non era registrare filmati in solitaria da pubblicare su Instagram, ma una continua vivência, brincadeira, malandragem, meno estetica e più sostanziale. E' memoria storica, che può rivelarci il significato di gesti e canti che ad oggi rischiamo di replicare con sterile senso d'imitazione, senza comprenderne a fondo il significato.
Ora, il rompi palle di turno dirà: "Sì, beh, ma questo è il passato. Oggi mica gioca più capoeira!".
Invece joga più capoeira lui con un semplice sguardo, di quanta ne potremmo saper giocare noi sbarbati in una vita intera.
Durante la mia visita presso l'Angola Center di NY, alla fine della roda, mi sono fermata con altri miei coetanei a parlare ed ascoltare il Mestre; ad un certo punto gli abbiamo chiesto delle spiegazioni su alcuni movimenti e lui subito ci ha dato indicazioni perché facessimo e capissimo, ma non si è limitato alla nostra domanda, senza che nemmeno ce ne accorgessimo già ci stava narrando un jogo intero e pieno di malandragem. Ecco, è difficile da esprimere a parole, perché è qualcosa che trascende la ragione e la dialettica. Se me lo concedete, ve lo racconterò con una metafora.
Esistono dei luoghi, più precisamente delle architetture, che suscitano in me sensazioni simili a quelle che provo di fronte ad un grande Mestre: uno di questi luoghi è la chiesa del Convento do Carmo a Lisbona. Si tratta di una magnifica architettura in stile gotico sopravvissuta al terremoto del 1755, che durante lo sciagurato evento venne irrimediabilmente danneggiata, rimanendone in piedi solo le strutture perimetrali. In poche parole, è una chiesa senza tetto. Bene, per me è uno dei luoghi più evocativi, da un punto di vista materiale e spirituale, che io abbia mai calpestato. Manca la copertura, ma in verità non le manca niente: c'è più Dio lì dentro che in tanti altri luoghi di culto, c'è l'umanità, c'è la Storia, c'è la sapienza ancestrale dell'uomo che sapeva costruire pensando all'Eterno. C'è tutto.
Ecco dunque, un velho Mestre come João Grande può apparire come un uomo a cui l'età ha tolto la prestanza fisica, ma la vera grandezza travalica i limiti imposti da un telhado.
SZ
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